Referendum: il fallimento della partecipazione ed una burocrazia “malata”
“Burodemocrazia”. Ma sì, coniamolo quest’ennesimo neologismo. Tendenzialmente orrendo. Ma che serve bene a descrivere la situazione della “democrazia reale” italiana.
Un paese in cui i cittadini non riusciranno più ad avvalersi dell’istituto referendario, pur previsto dall’articolo 75 della Costituzione “più bella del mondo”, per il solo fatto che i radicali non sono più quelli di una volta e adesso come adesso non sono in grado di raccogliere 500 mila firme valide su ciascuno dei quesiti proposti.
Che nella fattispecie ruotavano tutti intorno al pianeta delle riforme sulla giustizia (responsabilità civile del magistrato, incarichi extra giudiziari delle toghe, riforma della custodia cautelare ecc.) o attorno a quello dei diritti civili (divorzio breve, legge sull’immigrazione, legge sulla droga, abolizione dell’ergastolo e del finanziamento pubblico dei partiti ecc.).
In pratica è come se, scomparso o ridotto ai minimi termini il valoroso partito di Marco Pannella, nessuno sia in grado politicamente di raccogliere il loro testimone. Non di certo il Pdl, che pure un po’ di buona volontà, misto all’innato grado di casinismo politico esistenziale, ce l’aveva messa.
Le firme arrivate in Cassazione mancavano di timbri, di autentiche, ci stavano problemi sulla posta certificata, che ancora non usa a dispetto di chi parla di modernizzazione, e in genere gli adempimenti burocratici che permettono alla Cassazione di decretare l’ok erano tutti deficitari.
La notizia era stata pubblicata sul “Tempo” di Gian Marco Chiocci due settimane orsono, ma gli addetti ai lavori la sapevano già fin da metà ottobre. Cioè quindici giorni dopo l’ultima data utile per il deposito.
Ma al netto del casinismo dell’ex Pdl e dei suoi militanti così come della rarefazione della militanza post pannelliana, rimangono i gravi ostacoli che ha messo la burocrazia in termini di moduli con le firme, già raccolte nei comuni, non inviati in tempo utile, ad esempio. Tanto che proprio la neo segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, la persona prescelta per ridare smalto alla militanza e alle iscrizioni a tutti i soggetti della galassia radicale per il 2014, a Radio radicale avvertiva gli ascoltatori che anche in questi giorni, a due mesi di distanza dalla chiusura della raccolta , “stanno arrivando plichi pieni di firme alla Suprema Corte”.
E quindi ci saranno i ricorsi al Tar e alla stessa Cassazione e tutta una serie di procedure contenziose formali e sostanziali con le quali in circostanze analoghe si tenta di strappare qualche cosa, qualche concessione, a questo potente Moloch burocratico che in Italia ha preso il posto della democrazia partecipativa.
Ma purtroppo è inutile farsi illusioni: nessuno è più pignolo e garantista del giudice Corrado Carnevale nel vaglio dei diritti dei cittadini, ed essendo proprio lui a capo dell’apposito collegio che scruta le firme depositate a sostegno dei singoli quesiti referendari, una a una, se alla fine si dovrà constatare l’ennesimo fallimento referendario non resterà che prenderne atto.
E dovrà invece iniziare una seria riflessione sul “che cosa abbiamo fatto tutti noi cittadini italiani per meritarci tutto questo”, parafrasando il titolo di una nota commedia di Pedro Almodovar.
E anche per questa domanda la risposta sarà tragicamente facile: non abbiamo partecipato, abbiamo lasciato soli i radicali a difendere l’istituto referendario e abbiamo permesso a sedicenti politici di ogni tipo e genere, da D’Alema a Berlusconi, da Veltroni a Casini, passando per l’attuale sindaco di Firenze Matteo Renzi, di proferire parole demagogiche, nel passato prossimo o in quello remoto, a proposito del “non expedit” referendario.
Tutta gente che ha bollato la raccolta delle firme come inutile, che ha detto in tv che “gli italiani non capiscono i referendum”, mentre la frase giusta era “non vogliamo noi che siano informati dei loro diritti”, che hanno invitato alla diserzione delle urne in maniera cinica quando erano certi che altrimenti la politica intesa come casta avrebbe perso la partita con quella intesa come cittadinanza attiva, e che ha sempre regolarmente promesso, con mendace consapevolezza, che alle riforme ci avrebbe pensato la politica in Parlamento.
E che, nelle non rare volte che un quesito referendario abbia nonostante tutto raggiunto il quorum e l’esito si sia dimostrato contrario ai loro “desiderata”, è in seguito partita all’attacco dei risultati ottenuti dalla gente vanificandoli con nuove leggi che li sconfessassero.
Come è accaduto con la responsabilità civile del magistrato, che era diventata una realtà nel 1987 grazie all’impegno di politici di altro calibro come Enzo Tortora. L’uomo a cui il regista Ambrogio Crespi ha recentemente dedicato l’ormai stranoto docufilm “Enzo Tortora, una ferita italiana”.
L’ultimo affronto della prepotenza di una certa classe politica all’italiana, trasversale, che comprende veramente quelle “larghe intese per non intendere cosa vogliono le persone comuni”, è stato quello di imputare a chi i referendum li aveva promossi, cioè quasi sempre i radicali, di “non averli saputi difendere”.
Che è un po’ come se a un tizio che si presentasse in caserma dai carabinieri per denunciare di essere stato oggetto della rapina, magari anche violenta, dei propri averi si sentisse rispondere dal maresciallo della stazione di “non avere saputo difendere il proprio portafogli”.
A questo la politica ha ridotto il paese e se adesso viviamo in una “burodemocrazia” che non ci permette le riforme necessarie, vedi quella della giustizia, nè per via parlamentare e tanto meno per quella referendaria, sappiamo con chi dobbiamo prendercela.
Dimitri Buffa, 29 novembre 2013
Via Clandestino News “Referendum e firme insufficienti, l’Italia è ormai una Burodemocrazia”